E’ molto difficile sintetizzare in poche esaustive parole un concetto complesso… ma credo che una buona definizione possa essere:

“Viaggiatori solitari affabili, particolarmente curiosi, che aspirano al vedere Oltre”.
“Gli EE sono persone che, per loro fortuna e disgrazia, non si accontentano delle concise sommarie Verità trasmesse da una Storia e da una Scienza scritte dai Vincitori e criticate dalla volontà di riscatto degli Sconfitti.
Gli EE sono persone che non hanno altro dogma che un postulato di responsabile coerenza con se stessi nel proprio agire quotidiano.
Sono soggetti che si domandano da dove provengono, dove sono, dove vanno e perché.
E per trovare risposte il più possibile esaustive, pur coltivando, difendendo e tramandando la propria cultura regionale originaria, hanno un atteggiamento tollerante verso ogni entità che componga l’universo ed una mente aperta alle diversità ed alle novità, senza ombra di xenofobia.
Gli EE credono in un Creatore, ma sono altrettanto convinti che non ci sia bisogno di scomodare potenze divine per giustificare i mali del mondo: è sufficiente l’uomo con le sue debolezze e i suoi limiti, che spesso lo ostacolano nel compito di ottemperare al gravoso onere del libero arbitrio.
Al fine di affrontare con scelte libere e responsabili le problematiche che il corso della vita serberà loro, gli EE si impongono una ferrea disciplina personale volta a conseguire, mantenere e incrementare, nella maggior autonomia possibile, uno stato di benessere emotivo, psicologico, fisico e economico opportuno a:
Essere empatici e stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri;
Partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente in cui si sviluppa la propria esistenza;
Capire le proprie emozioni e sviluppare la propria personalità, investendo le proprie pulsioni istintuali nelle relazioni sociali;
Avere autocontrollo e risolvere i propri conflitti in modo equilibrato;
Essere ottimisti, adattandosi alle condizioni esterne e ai conflitti interni;
Avere autostima e fiducia in se stessi.
In ogni frangente gli EE cercano sempre di vedere entrambi i lati della medaglia… e se possono anche lo spessore che li unisce!
Gli EE sono di orientamento biofilo per istinto esistenziale e scelta razionale.
Esperienza insegna che, pur essendo l’universo dominato dalla legge entropica e l’indole umana portata all’egoismo individualista, un comportamento empatico, altruistico, educato ed equilibrato garantirà di guadagnare tempo: a livello singolare, vivendo a lungo in salute e con serenità, globalmente creando i presupposti affinché una massa critica di individui maturi una maggiore coscienza evolutiva della specie.
Consapevoli che la biofilia necessita di abbondanza, sia economica che psicologica, mentre la penuria incoraggia la necrofilia e che l’amore per la vita è contagioso e si sviluppa in società caratterizzate da sicurezza, giustizia e libertà, gli EE si impegnano attivamente, secondo le proprie possibilità e capacità, a partecipare e promuovere attività liberali e sociali volte al ridurre gli stati di frustrazione causati da ostacoli di ordine ambientale, sociale e endogeno.”
Spero con queste parole di aver reso cosa intendo quando parlo di EE: è un “modus vivendi”, un percorso autonomo di miglioramento personale che tutti possono compiere senza limiti di età, sesso, condizione sociale o economica, cultura, orientamento sessuale, capacità o menomazioni fisiche… senza restrizioni di ammissibilità di alcun tipo, se non la volontà di mettersi in gioco al fine di conseguire un benessere personale e, conseguentemente, ambientale e collettivo!
L’impegno è arduo, l’eventuale selezione sarà naturale!
Definiti gli EE, risulta ovvio affermare che la “Gilda” vuole essere un gruppo di persone che sono o cercano di essere degli audaci EE, mentre il Forum ambisce ad essere il giardino, la locanda, il faro… il luogo d’incontro “virtuale” dove conoscersi, confrontarsi, migliorarsi.
Il punto fermo dove tornare e fermarsi a sostare un po’, tra un viaggio e l’altro.
Primo testo originale del 20 set 2008

 


Dopo aver letto testi di Enrico Ferrari e Maria Zambrano, riporto in calce alcuni appunti che serviranno, in un futuro prossimo, a riformulare la definizione di “Esploratore Errante” alla luce dei concetti di “nostalgia”, “migrazione”, “esilio”, “ricerca”, “grazia”, “bellezza”, “futuro” e “speranza”:

APPROFONDIMENTO QUI

La nostalgia ha natura ambigua: dolce e aperta a un futuro quella del migrante, sprezzante e volta al solo passato quella del fascista.
L’immagine simbolica del migrante più testimonia la nostalgia contraddistinta dal dolore della separazione della propria terra natale, assieme alla consapevolezza di non sapere se sia possibile ricongiungersi ad esse.
Anche il fascista è un nostalgico per antonomasia, ma la sua è una nostalgia contraddistinta dal rifiuto del presente e dal perverso bisogno di un ordine che umili la creatività del nuovo.
Il migrante accetta destinalmente il nuovo e la separazione dalle origini, patendola e coltivando una speranza che non necessariamente si fa programma storico, il fascista rifiuta il divenire della storia e vorrebbe evitare il lutto della separazione, ipostatizzando il passato.

Rinaldo è uomo che nella vita è sempre stato in perenne ricerca di nuove amicizie e di nuove avventure, con tanto entusiasmo ma con una venatura di costante insoddisfazione. Sono soprattutto state quelle dell’adolescenza e della giovinezza le stagioni che, almeno nella memoria di oggi, gli paiono come le più felici. Esse hanno costituito l’alternativa più desiderabile all’altra stagione invece patita dell’infanzia, dominata dall’anaffettività dei genitori.
Una vita, si direbbe, alla ricerca di una dimora affettiva mai trovata, per questo dedita all’erranza con tentativi, cambiamenti, errori, tante esperienze. Una sorta di impossibilità alla patria, resa vera soprattutto oggi che
Rinaldo è anziano e non riesce più a praticare l’erranza nelle sue declinazioni sensoriali, praticandola tuttavia sulle strade dell’immaginazione. Si sente un esiliato, ma pensa di esserlo sempre stato: straniero in ricerca, più volte preda dell’illusione dell’approdo definitivo, ma poi di nuovo preda della ricerca.

In analisi le sedute sono narrazioni nostalgiche, in continua oscillazione tra un presente desertificato anche dai dolori del corpo e la speranza che non saltino i ponti con il passato, perché non venga polverizzato il desiderio che ancora vi abita. Solo la nostalgia riesce ad arginare la ripetuta tentazione della morte volontaria.

È l’estraneità il grande contenuto della sofferenza di Rinaldo e, del resto, il grande tema della sua vita. Ci sono parole dal significato psicologico e antropologico che, sole, riescono a dire il significato di un’esistenza, come invece non sanno e non possono dire le parole delle diagnosi cliniche (la stessa diagnosi di depressione). L’estraneità di Rinaldo è un sentirsi sempre fuori, mai pienamente appartenente. Ma, allo stesso tempo, è motivo di erranza, di un costante andare verso. Rinaldo è estraneo e ne soffre, ma riconosce se stesso solo nel sentirsi tale.

La parola tedesca per dire l’estraneità, Entfremdung, meglio si presta a segnalare la sua portata antropologica e a non relegarla nel ripostiglio svalutato dei sintomi. Così Heidegger, guidato dalla bussola dell’etimologia:
Ma che cosa significa fremd ? Con il termine fremdartig s’intende generalmente ciò che non è familiare, che non attrae, ciò che piuttosto pesa e inquieta. Ma fremd, la cui forma nell’antico alto tedesco è fram, significa propriamente: avanti, verso altro luogo, in cammino verso, incontro a ciò che ci è pre-riservato. Ciò che è straniero cammina avanzando verso… Ma non erra senza destinazione e alla cieca. Ciò che è straniero va cercando il luogo dove potrà restare come viandante (Heidegger 1959, p. 48).

Rinaldo, oggi come sempre, si sente estraneo alla vita. Eppure, si è sempre inoltrato nel movimento della ricerca. La sua è nostalgia dell’erranza motivata dal sentimento di essere straniero. Fremd, ricorda Heidegger, è essenzialmente un camminare verso… Verso dove?
L’esperienza della nostalgia sembra dire: verso l’originario. Un tornare a ciò che ha il sapore del proprio ma, altrettanto, del mai conosciuto e per questo nuovo. Un tornare che non si compie mai in un ritorno.
La condizione dell’estraneità viene così a saldarsi in Rinaldo con quella dell’esilio: essere fuori dalla propria terra ma nella sua perenne ricerca e senza mai voler sostare nell’appagamento di averla trovata. Se l’esiliato è colui che abbandona ed è abbandonato dalla sua terra, questi rimane sempre collegato con l’abbandonata e il collegamento si rivela tramite il sentimento della nostalgia. Essa, paradossalmente, diventa il modo di salvaguardare (in virtù della lontananza che sollecita il pensiero) ciò di cui l’esiliato non ha mai potuto godere. La terra è terra simbolica, collocata nel tempo di un passato illimitato e non nei limiti dello spazio abitato.
È l’esilio la vera patria, come allude Maria Zambrano nel felice titolo di una sua celebre raccolta di scritti. Perché, ricorda la filosofa spagnola (par excellence la filosofa dell’esilio), a differenza dello sradicato che non vive l’abbandono come definitivo, l’esiliato ‘sceglie’ di essere spossessato e ne sa l’ineluttabilità. Sa di poter vivere la patria solo nostalgicamente, sa che una patria davvero non c’è se non quella della sua ricerca, per cui teme un ritorno al passato nella concretezza dei fatti. La patria della storia non coincide con la patria dell’originario. La prima non è mai sufficiente a mettere fine all’erranza verso la seconda. Il luogo dove si potrà restare, ricorda Heidegger, è solo il luogo in cui vivere da viandante.

L’esilio di oggi di Rinaldo può anche essere inteso come la rappresentazione della vecchiaia: nella dialettica tra erranza delle esperienze e nostalgia interiore, è la seconda a insistere più intensamente. Il movimento dei sensi si riduce e lascia spazio al movimento dello spirito; l’illusione del possesso si fa sempre più rara e l’ampiezza dello scarto tra desiderio e suo compimento si dilata. Ci sono vite umane in cui tutto ciò uccide il desiderio, altre in cui il desiderio si fa più puro.

La nostalgia, come ricorda Maria Zambrano, è “desiderio di far nascere”. Per questo motivo non può coincidere con la malattia depressiva, dove il desiderio langue e il passato si ammutolisce in un paesaggio di pietre dure, riluttanti a ogni movimento di trascendenza. Ed è distante dalla posizione della rabbia, il cui desiderio non è quello di far nascere ma di distruggere, infrangendo non solo l’immagine del passato ma anche l’ulteriorità di un futuro possibile.
È la trascendenza a caratterizzare la nostalgia, nel dischiudere l’origine all’originario che oltrepassa la storia e nel dichiarare l’insufficienza del presente. Tutto ciò, ancor prima di ogni riflessione, genera un sentimento di bellezza.
Se è vero che anche in un’epoca storica in cui trionfa l’azione netta e risoluta, in cui le radici e i progetti cedono il posto all’istante, in cui il profitto espugna la meraviglia… se è vero che anche oggi solo la bellezza potrà salvarci, la nostalgia è tra i vasi psichici che meglio ce la possono portare in dono.
La bellezza della nostalgia salda la condizione dell’esiliato, che tutti ci accomuna pur con diversa tolleranza emotiva, con il desiderio dell’originario. Il suo sentimento nasce dalla trascendenza del presente e della corporeità, dalla possibilità di guardare il vecchio scoprendovi il nuovo, dal contemplare lo scorrere del fiume eracliteo, dal gusto degli affetti che abbracciano un ampio ventaglio dove la tristezza e la gioia sono compagne.
Anche il sentimento di perdita, girando le spalle alla logica, può diventare foriero di bellezza. Perché è la perdita a decentrare l’Io e a consentirgli un orizzonte che trascende la notorietà. Se accettata, la perdita che convoca la nostalgia mostra lo scenario dei possibili e chiude allo spettacolo della perfezione: delude e rattrista, ma in cambio può offrire una terra e un cielo più vasti, dove l’Io smette i panni del padrone per indossare quelli del viandante.
E tutto questo è dono, grazia. Che cosa significa? Che la nostalgia oltrepassa la corporeità immersa nella immediatezza dei sensi per accedere a una corporeità non più segnata solamente dal tempo cronologico. Questi è il tempo che inesorabilmente scorre e approssima alla morte, ma non interpreta appieno l’insorgere dei significati emergenti da un passato che non si può comprendere con la sola lente della misura temporale. Nel gioire e al contempo piangere di ciò che è stato e non è più, ma tuttavia è ancora perché i territori dell’anima non sono pienamente colonizzati da Kronos, il tempo della nostalgia è anche grazia: dono gratuito di senso, permesso dal passato ma nato altrove, dono di luce che dà parola anche al dolore che non può certo essere espulso o ignorato ma, al più, liberato dal suo mutismo.

La grazia della nostalgia, inattesa, ricevuta e non cercata, è allora il possibile filo che unifica i diversi brani della psiche interpretati nel corso dell’esistenza. Il suo è un insostituibile contributo identitario: cogliere la nostra uguaglianza e la nostra differenza nel tempo, facendoci sentire allo stesso modo abitatori del presente, figli e orfani del passato, testimoni di un futuro imprendibile.

Per questo siamo sempre e perennemente in esilio come l’esistenza di Rinaldo ci insegna, ben lungi dal segnalare un mero difetto clinico ma assurgendo invece a simbolo dell’umano tout court. Simbolo dell’esistenza di coloro che non vogliono (non possono) abitare la sola superficie, ma vivono potentemente l’attrazione per la profondità. Per questo patiscono, per questo la psicoanalisi è nata e continua ad avere una sua insostituibile ragion d’essere.

Chi rifiuta la perdita, chi non accetta il divenire della storia, chi reifica il passato non può vivere il dolore del farvi ritorno. Il passato diventa per lui una sorta di feticcio che svaluta l’emozione del ripercorrerlo, impedendo di vedervi la fragilità della bellezza per privilegiarne il solo carattere di forza e di potere che esclude l’altro e il nuovo. Il fascista disdegna la fragilità perché gli richiama il morire delle cose e delle relazioni, obbligandolo a reperirne il senso non in virtù del loro imporsi, ma in virtù del loro aprirsi a un originario che le trascende.
Il migrante è invece la figura antropologica che più conosce la nostalgia. Egli sa dell’ineluttabilità della perdita e sa che la sua speranza non può trovare l’approdo nel passato della storia. Piange la terra d’origine, ma ciò non gli impedisce di coltivare un futuro diverso dal passato. Il passato è ricordato non per riproporlo così come è stato, ma per sposarlo alla novità del presente e del futuro. D’altra parte, il passato non è mai costituito dai fatti ma dai ricordi dell’anima.
L’estraneità del migrante non è allora perdita identitaria per sé o minaccia identitaria per chi lo accoglie. La sua estraneità, che genera la nostalgia, assurge a immagine universale dell’identità umana: essere uguali e al contempo diversi lungo il tempo, figli delle origini ma anche della storia di vita, amanti della propria terra e allo stesso tempo inappagati da essa, uniti dal sangue e a volte più ancora dai nuovi legami che la storia procura.

Di questi tempi, in cui la coscienza collettiva fatica a una visione e a una gestione complessa del tema della memoria e della speranza, come del tema dell’identità e della perdita, la nostalgia può diventare allora oltre che tema psicologico e letterario anche tema politico.
Di una politica intesa come arte del vivere insieme e del collegare il tempo del presente con il tempo del passato e del futuro. Come arte del compiere scelte che non rispondono mai alla sola contingenza del momento, ma contribuiscono sempre anche a favorire l’interezza o meno della vita dei cittadini. Del resto, non è possibile concepire la vita psicologica individuale prescindendo dalla sua dimensione collettiva, dalla dimensione dell’essere cittadini.
E non possiamo non concludere pensando anche al migrante storico oltre che al migrante simbolico; ai valori e alle esperienze della psiche individuale ma anche al loro ineludibile intrecciarsi con la psiche politica. Lo facciamo dicendo che accogliere e ospitare il migrante non è solo un’operazione che mostri la visione umana e sociale di un popolo. Significa altresì concorrere ad allestire una coscienza collettiva disposta a non relegare nell’ombra elementi fondamentali della vita psicologica. Significa dare spazio culturale e psicologico all’accettazione della perdita e alla possibilità di prendersene cura, pur non potendola interamente ricostituire. Significa non trascurare il passato e non relegarlo al solo rimpianto, ma portarlo nella novità delle nuove relazioni e delle nuove costruzioni identitarie. E significa coltivare la sapienza del relativo, che fa vivere la provenienza delle origini come necessaria ma non assoluta, consentendo a tutti, ospiti e ospitanti, di vivere l’esilio dell’esistenza. L’esilio, categoria psicologica e antropologica ben prima che sociologica, non farà mai coincidere la madre con la sposa, pur ricordando nostalgicamente la prima quale matrice del desiderio della seconda. Nemmeno la terra natale con la terra promessa, anche se senza la prima non avrebbe potuto mai esserci l’amore per la terra. L’esilio non farà neppure mai
coincidere l’identità con la sicurezza, perché la seconda, da sola, non fa ricercare la prima, anche se questa vorrebbe sempre riposare appresso l’altra. La vera nostalgia non abita allora solo le stanze segrete individuali. È anche un sentimento della cittadinanza politica: se accettata e valorizzata migliora anche la vita sulle strade, aiuta il ritrovarsi nelle piazze e contribuisce a far sì che nei palazzi del decidere collettivo, accanto alla necessaria forza del governare, sia curata la delicata e rigorosa crescita dell’umano.