In America il libro di Cass Sunstein e Reid Hastie super esperti di “Decision making” spiega che le riunioni di gruppo servono solo a rafforzare i nostri sbagli. Ma offre anche qualche consiglio per correggersi

Quante volte nella nostra vita abbiamo preso decisioni di gruppo? In famiglia, a scuola, sul lavoro, nello sport, negli hobby: un’infinità. E quante volte abbiamo sbagliato? Quasi sempre, a giudicare dal nuovo libro di Cass Sunstein e Reid Hastie, intitolato “Wiser. Getting beyond groupthink to make groups smarter”. E’ possibile rimediare, però, seguendo la ricetta dei due autori.

Sunstein sa di cosa parla per esperienza diretta, perché ha diretto l’Office of Information and Regulatory Affairs nella Casa Bianca di Barack Obama, gestendo con il suo gruppo tutti i problemi relativi ai regolamenti in ogni settore, dai diritti umani alla sanità. Ora l’autore del bestseller “Nudge”, nonché marito dell’ambasciatrice americana all’Onu Samantha Power, è tornato all’università di Harvard dove insegna alla Law School. Hastie invece è professore alla Booth School of Business della University of Chicago, dove è esperto di decision making e behavioral science.

In teoria, prendere decisioni in gruppo dovrebbe essere vantaggioso, perché si sommano le competenze e le conoscenze di tutti. In realtà, in genere è un disastro. I gruppi spesso amplificano, invece di correggere, i loro errori. Sono vittime dell’effetto “cascade”, dove i partecipanti seguono ciò che dicono i membri più importanti. Si polarizzano, prendendo alla fine posizioni più estreme di quelle che le singole persone avevano all’inizio della discussione. Enfatizzano ciò che ognuno conosce già, invece di provare ad esplorare le informazioni critiche ancora non note. In altre parole, le riunioni di gruppo servono solo a rafforzare i nostri sbagli, con i partecipanti che si convincono a vicenda dell’esattezza dei loro errori, invece di scoprirli e correggerli. Gli esempio sono infiniti, curiosi e a volte tragici, a partire dal processo decisionale che portò alla scelta di invadere l’Iraq nel 2003.

Non siamo senza speranze, però, e lo scopo di “Wiser” è proprio quello di farci diventare più saggi, restituendo al “groupthink” i vantaggi che in teoria dovrebbe avere. Il primo consiglio è quello di mettere il bavaglio ai leader: anche se un capo entra in una riunione con un’idea molto chiara di ciò che intende fare, per farlo al meglio deve tacere, ascoltare gli altri, raccogliere i contributi utili, e magari anche cambiare direzione. Oppure portare i collaboratori sulla sua posizione, dando l’impressione che ci siano arrivati per conto loro. Un esempio fatto da Sunstein è proprio quello di Obama. Durante una riunione alla Casa Bianca, un collaboratore molto giovane del presidente aveva avuto un lapsus assai comico, e la sala era scoppiata a ridere. Siccome l’incontro era quasi alla fine, i membri più senior ne avevano approfittato per alzarsi e tornare alle loro scrivanie. Obama li aveva fermati e li aveva fatti sedere, perché voleva che il giovane collaboratore si riprendesse e finisse di spiegare il suo pensiero, che era interessante nonostante la gaffe. Lo stesso esame critico della situazione non avvenne quando furono lanciati i siti internet per la sottoscrizione della riforma sanitaria. Nessuno si chiese cosa sarebbe potuto andare storto, e tutto il possibile andò storto.

Dunque la prima regola è che il leader deve saper ascoltare, incoraggiare la discussione e persino le critiche. Tutti i partecipanti devono essere spinti a condividere le informazioni che possiedono, investiti di responsabilità che li facciano sentire coinvolti, ed esposti alla prospettiva di essere premiati per il loro contributo. Invece di premiarli dopo, però, date subito qualcosa e minacciate di toglierlo se non produrranno risultati, perché il timore della privazione incentiva più della possibilità del guadagno.

Questi sono solo alcuni dei consigli contenuti nel libro, che va a fondo del problema. Qualche volta, poi, bisogna anche usare dei trucchi. Prima di prendere una decisione importante, ad esempio, il presidente Roosevelt diceva a tutti i suoi collaboratoti di essere perfettamente d’accordo con ognuno di loro, anche se ognuno sosteneva una posizione diversa. Così tutti si impegnavamo al massimo, sentendosi ascoltati. Il prezzo da pagare era che tutti poi venivano delusi, tranne quello di cui alla fine veniva accettato davvero il consiglio; il vantaggio, inestimabile, era prendere sempre la decisione più informata e corretta possibile.

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