L’empatia (letteralmente “sentire”) è l’esperienza, per dirla con Edith Stein, “alla base di tutte le forme attraverso le quali ci accostiamo a un altro” agendo da riconoscimento dell’individualità di un’altra persona (sei importante per me, ho stima di te e riconosco, rispetto e condivido il tuo sentimento). Nella forma più matura, l’empatia implica un notevole impegno cognitivo, indirizzato a recepire lo schema di riferimento interiore dell’altro, e una componente affettiva che induce a sperimentare reazioni emotive in seguito all’osservazione delle esperienze altrui. Come spiegare il comportamento empatico? Negli ultimi anni questo aspetto di “affiliazione con il prossimo” è divenuto oggetto di indagine scientifica al confine tra evoluzionismo, etologia, genetica, neuroscienze, psicologia e sociologia.
Lo sviluppo dell’abilità empatica appare in relazione all’attaccamento. In accordo alla teoria dell’attaccamento sviluppata dallo psicoanalista britannico John Bowlby, l’attaccamento è una dimensione della mente umana che si organizza a partire dalle prime relazioni tra il neonato e chi si prende cura di lui (caregiver). Una delle funzioni primarie della relazione di attaccamento è la regolazione degli stati del bambino, in particolare degli stati affettivi. I bambini con un attaccamento “sicuro” sanno di poter contare sulla disponibilità del caregiver come “base sicura”, fonte di conforto e cure in situazioni di stress. Di contro, i bambini con un attaccamento “insicuro” sperimentano una condizione in cui la figura di attaccamento non è sufficientemente responsiva ai loro bisogni. “Senza attaccamento non esiste empatia – afferma Boris Cyrulnik, direttore delle ricerche in etologia all’Università di Tolone – provare interesse al mondo degli altri richiede l’abilità di non essere centrati su se stessi. Abbiamo bisogno di una base sicura per provare il piacere dell’esplorazione. Quando siamo supportati da un attaccamento sicuro possiamo sviluppare l’abilità empatica, qualche volta troppo, come nel masochismo, o non abbastanza, nella condizione che porta al sadismo” (Boris Cyrulnik, Di carne e d’anima, Feltrinelli).
Di contro, la vicinanza affettiva alimenta l’empatia: gli studi etologici indicano che i delfini, gli elefanti, i canidi e la maggior parte dei primati rispondono alla sofferenza degli altri, in particolare al dolore provato da un animale con il quale hanno instaurato un legame di attaccamento. In un esperimento significativo, effettuato alla McGill University, due topi venivano collocati all’interno di tubi di plastica trasparente, in modo da potersi osservare a vicenda, e sottoposti ad un trattamento (iniezione di acido acetico) che ne provocava un leggero mal di stomaco ed un conseguente contorcimento. Il primo topo manifestava un’intensificazione della propria esperienza (si contorceva di più) se anche l’altro si stava contorcendo. Ma avveniva solo se i due topolini erano stati in precedenza compagni di gabbia.
In campo umano, ricordiamo un classico esperimento condotto su giovani donne sane dal gruppo di Tania Singer presso il Laboratorio di neuroanatomia funzionale dell’Università di Londra: le donne vennero sottoposte a fMRI mentre i ricercatori praticavano una leggera scossa al dorso della mano. In una fase successiva, erano avvisate mediante uno stimolo visivo che il loro partner, che si trovava nella stessa stanza, stava ricevendo uno stimolo doloroso analogo a quello che loro avevano sperimentato in precedenza. I risultati indicavano che nelle donne alcune aree deputate alla percezione del dolore (corteccia cingolata anteriore, insula anteriore) venivano attivate sia quando la scarica era somministrata alla propria mano sia quando si rappresentava mentalmente la sofferenza del compagno. Inoltre le volontarie che ottenevano punteggi più alti in due scale di empatia emozionale presentavano una più intensa attivazione di queste due aree mentre il partner subiva la stimolazione dolorosa.
L’empatia è congruente con il prendersi cura, sostiene Martin Hoffman, professore di psicologia alla New York University, uno dei più autorevoli studiosi nel campo dell’empatia. Il principio del prendersi cura non si riferisce ad una condizione particolare; come altri principi morali, rappresenta un valore fondamentale. Il principio di cura e l’empatia, pur rappresentando disposizioni indipendenti ad aiutare il prossimo, si rafforzano a vicenda. “L’essere umano ha bisogno di essere preso in cura, ma nello stesso tempo di prendersi cura – spiega Luigina Mortari, ordinario di Scienze dell’Educazione presso l’Università di Verona (nell’articolo “La qualità etica della cura”, Scuola e Formazione, Anno XIII, n.3) – ha bisogno di prendersi cura per costruire significato nella sua esistenza: l’essere umano costruisce un orizzonte di significato prendendosi cura del campo vitale in cui viene a trovarsi. In questo modo si può dire che il fare realtà, ossia mettere al mondo mondi di esistenza, dipende dalla cura”.
Empatia, attaccamento, aver cura dell’altro, costituiscono un circolo affettivo che si autoalimenta e si amplifica estendendosi a mano a mano a individui al di fuori della proprio ambiente familiare o sociale: più entriamo in intima relazione con gli altri, in un processo di riconoscimento e rispecchiamento reciproco, più aumenta la nostra sensibilità empatica e più ricco ed universale diventa l’ambito di realtà a cui abbiamo accesso.
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