Riporto questo testo per permettere il confronto con gli enormi passi avanti compiuti dalle neuroscienze nell’ultimo decennio.

Cervello Umano e Cervello Animale – parte I

Siamo davvero unici nel regno animale? Ed è unico il nostro cervello? Gli animali, vogliamo dire il nostro cucciolo Kimi, hanno una coscienza? Sono domande che da sempre hanno impegnato filosofi, teologi e neuroscienziati. Circa il rapporto tra animali e coscienza, finora la risposta è stata sfuggente.
Alcuni autori considerano l’animale umano come parte di un “continuum” con gli altri animali, mentre altri riconoscono una “netta divisione” fra umani e animali. Gli studi finora riconoscono le enormi differenze presenti tra la mente e il cervello dell’uomo e le strutture cerebrali dei non umani.
Invero, per lungo tempo gli animali sono stati considerati come misteriose entità, assumendo il significato di simboli religiosi (per gli Egizi), simboli moralistici (favole di Esopo), espressione della creazione divina (S. Francesco), oggetto di divertimento venatorio (Federico II di Svevia), macchine insensibili (Cartesio).
Con Darwin, il comportamento viene per la prima volta considerato un carattere della specie, che si è affermato a seguito di un processo evolutivo. Egli fu anche il primo a dare importanza alle attività psichiche degli animali e ad affrontare scientificamente il problema dell’istinto e dell’apprendimento.
Gli esseri umani hanno una capacità “innata” di comprendere che i loro simili possiedono menti dotate di desideri, intuizioni, credenze e stati mentali diversi. Questa capacità è stata chiamata per la prima volta “teoria della mente” (TOM) nel 1978 da David Premack. La qualità di osservare il comportamento altrui e inferire gli stati mentali interiori è già presente nei bambini di quattro-cinque anni di età. Ci sono addirittura indici della presenza della TOM persino prima dei due anni di età (Striedter). I soggetti che presentano sindrome di autismo hanno deficit legati alla teoria della mente e ai neuroni specchio.
Oggi la più grande sfida della nuova scienza del cervello è quella di scoprire in che modo funziona la mente. La maggior parte dei processi cerebrali ha luogo senza che noi ne siamo consapevoli (Posner). La funzione del cervello, infatti, presenta due aspetti fondamentali: ciò che accade a livello cosciente e ciò che accade a livello non cosciente.
In realtà, la coscienza è un fenomeno che riguarda la dimensione soggettiva, introspettiva dell’essere umano, riguarda i suoi stati d’animo. I quali purtroppo non ci possono dare una risposta certa, poiché gli stati d’animo- chiamati “qualia” dai neuro scienziati- “non sono misurabili in maniera oggettiva” (Dehaene).
Ci sono dunque autori che affermano che l’essenza della coscienza non può avere una spiegazione scientifica, ossia che è tanto “fantastica” da non poter essere spiegata attraverso i neuroni, le sinapsi o i neurotrasmettitori. “Ignoramus ignorabimus”: siamo condannati all’ignoranza eterna? Non è assolutamente così. Ci sono in effetti altri studiosi che ritengono che possa essere possibile decifrare quell’elemento così “unico” che chiamiamo coscienza. Tentare allora di avvicinarci alla mente e alla coscienza con i metodi scientifici rappresenta un’impresa persino più fantastica e affascinante.
In questi ultimi anni, le nostre conoscenze sul cervello sono progredite enormemente, soprattutto in virtù degli eccezionali avanzamenti delle metodiche di neuro imaging funzionale. Prima gli studi negli anni Ottanta del secolo scorso di Francis Crick con l’opera “La scienza e l’anima” poi le ricerche di Edelman, Kandel, Damasio, Gazzaniga e tanti altri, hanno definitivamente sancito che lo studio scientifico delle basi neurali della coscienza e della mente è “empiricamente possibile sul piano teorico e sperimentale” (Gazzaniga).
COSCIENZA SENTIMENTI ED EMPATIA NEGLI ANIMALI
Gli esperimenti condotti sugli animali dunque rappresentano il miglior modo di studiare il cervello e la mente umana. Le ricerche mostrano che esistono molti livelli di coscienza. E’ generalmente accettato- scrive Gazzaniga- che i mammiferi “siano coscienti del qui e adesso”. La questione principale tuttavia è che non siamo in grado di elaborare un esperimento che possa valutare il grado di coscienza di un animale non verbale. Anche se non possiamo fare esperienza della coscienza dei membri di altre specie, possiamo inferire che animali come i cani “siano coscienti” (Edelman). Questa affermazione si basa sul loro comportamento e sulla “stretta somiglianza tra il loro cervello e il nostro”.
I cani e altri mammiferi sono dotati di “coscienza primaria”, che è consapevolezza delle cose del mondo “hic et nunc”. Un po’ come l’illuminazione di una stanza buia da parte di un raggio di luce. Non sono “coscienti di essere coscienti”. Non sono dotati cioè di coscienza di “ordine superiore” come noi. Gli scimpanzé possono usare simboli, facoltà che potrebbe rivelare l’esistenza di un segno di “coscienza superiore” (coscienza di coscienza).
Per coscienza intendiamo la capacità di possedere un certo livello di autoconsapevolezza. Ciò significa essere oggetto della propria attenzione. Si va dal semplice essere consapevoli degli stimoli ambientali- “Io sento la musica delle onde del mare”- sino alla possibilità di “concettualizzare” le informazioni su di sé che necessitano di essere determinate in maniera astratta- “Io sono un soggetto romantico”-. Gli studiosi si sono concentrati su due ambiti: l’autoconsapevolezza animale e la metacognizione animale, cioè pensare di pensare.
Analizzando l’autoconsapevolezza animale, Marc Hauser scrive che “tutti gli organismi sociali che si riproducono sessualmente sembrano essere dotati di meccanismi neurali per discriminare i maschi dalle femmine, i cuccioli dagli adulti e i parenti dagli estranei”.
Molti sistemi differenti si sono evoluti per aiutarci- chiarisce Gazzaniga- a identificare i parenti dagli estranei. Un sistema che molti uccelli possiedono è l’imprinting. Il primo individuo che vedono è la madre. Le api e le vespe riconoscono la loro colonia dall’odore, gli scoiattoli utilizzano l’odore per il riconoscimento e i pipistrelli riconoscono i loro piccoli tra migliaia di altri attraverso la comunicazione vocale e olfattiva (J.M.Mateo).
Gli esperimenti attuali mostrano che gli animali non hanno memoria episodica e non sono in grado di “viaggiare nel tempo” con l’immaginazione. Di recente, alcuni studi hanno cercato prove dell’esistenza di forme di metacognizione animale nei ratti. Le prospettive sono attraenti, ma necessitano di ulteriori verifiche.
Invero, dimostrare l’autoconsapevolezza negli animali si sta rivelando un compito complesso, delicato e difficile. Attribuire agli animali azioni coscienti costituisce una forte tentazione, è qualcosa che affascina.
Finora, il problema è stato affrontato da due prospettive diverse. Una si basa sull’auto riconoscimento allo specchio, l’altra sull’imitazione. Lo scienziato Gordon Gallup ha esaminato il problema, realizzando un test durante il quale anestetizzava alcuni scimpanzé, metteva loro un segno rosso su di un orecchio e sul sopracciglio e poi, quando si erano ripresi dall’anestesia, li metteva davanti a uno specchio. Prima non toccavano i loro segni rossi, ma una volta che veniva presentato loro lo specchio gli scimpanzé lo facevano. Lasciati davanti allo specchio, dopo un po’ cominciavano a osservare parti del loro corpo. Non tutti gli scimpanzé manifestavano tuttavia la capacità di riconoscersi allo specchio (MSR). Due delfini e uno su cinque elefanti, testati in due studi diversi, hanno anch’essi superato il test del segno rosso (Povinelli).
La capacità di auto riconoscersi nei primati, nei delfini e negli elefanti denota un’evoluzione convergente dovuta all’interazione di fattori biologici con fattori ambientali (Gallup). Essa implica altresì che il soggetto è in grado di compiere un’astrazione. E’ capace di “razionalizzare” (Anderson).
Altre specie animali che dimostrino di possedere una MSR finora non sono state trovate. Questo è il motivo per cui il nostro cucciolo Kimi non sembra affatto interessato quando cerchiamo di farlo guardare allo specchio. L’ipotesi di Gallup è che l’auto riconoscimento allo specchio implica la presenza di un concetto di sé e un’autoconsapevolezza. I bambini superano il test del segno rosso all’età di due anni, dimostrando di avere la MSR.
L’altra prospettiva per dimostrare l’autoconsapevolezza negli animali è l’imitazione. Se si è capaci di imitare le azioni altrui, allora- sostiene Joseph Call, che ha analizzato lo stato attuale della ricerca in questo campo- si è anche capaci di distinguere tra le proprie azioni e quelle dell’altro.
Esistono evidenze di imitazione nel mondo animale. La maggior parte delle prove nei primati tuttavia indica una capacità di “riprodurre” il risultato di un’azione, non di “imitare” l’azione in sé. Alcune ricerche rivelano la presenza di un comportamento di “pianificazione” negli oranghi, nei bonobo (Mulcahy,Call) e nelle ghiandaie (Clayton). Le quali nascondono diversi tipi di cibo in luoghi differenti, in momenti diversi e vanno poi a ricercare il cibo in maniera selettiva, cercando prima il cibo che deperisce, e mangiandolo, rispetto al cibo che si conserva meglio. I risultati di questi studi suggeriscono che la pianificazione “non è una capacità unicamente umana”.
Al centro della ricerca neuro scientifica c’è l’esigenza di capire in che modo la coscienza si sviluppa e da dove viene, quali sono cioè le sue origini filogenetiche. Gli studi sperimentali degli istinti animali mostrano che i primi “segni” di coscienza si manifestano nel regno animale, a partire dalle “emozioni primordiali” come la sete, la fame, il bisogno d’aria, il desiderio sessuale, l’appetito per i soli minerali. Queste emozioni- rileva Denton- sono indispensabili alla sopravvivenza degli organismi viventi.
Le ricerche sugli animali- dagli insetti ai polpi, dai pesci ai vertebrati- dimostrano che l’emozione primordiale di questi bisogni e la loro gratificazione costituiscono “una pietra miliare” sul percorso che porta alla nascita della coscienza. Le emozioni primordiali formerebbero una sorta di primo “Sé” per arrivare poi all’elaborazione di quella che Denton chiama una “scena interiore” della coscienza. La quale è la capacità di riconoscere la “differenza” tra i propri pensieri e le informazioni sensoriali provenienti dal mondo esterno (Brentano).
L’idea avanzata da molti scienziati è che le emozioni primordiali costituiscano la prima comparsa della coscienza (Damasio). Questo assunto mostra che la coscienza non è una facoltà esclusivamente umana.
Le dimostrazioni condotte da Derek Denton ci offrono un’analisi precisa dei diversi comportamenti osservati negli animali. Comportamenti che hanno portato gli scienziati a formulare stupefacenti domande. Le api, per esempio, possiedono una coscienza collettiva? Il pesce può soffrire? Qual è la differenza tra la coscienza di un polpo e quella di un mammifero. Che cosa succede nel nostro cervello quando proviamo la sensazione di avere sete, quando beviamo e quando ci siamo dissetati? E che cosa accade con l’orgasmo? Presenta tratti in comune con la soddisfazione della sete?
Il neuroscienziato Denton riporta un caso illuminante. Una rana in stato di disidratazione viene collocata a pochi centimetri da una vasca d’acqua. Non farà nulla per cercarla e si lascerà morire. Posta nelle stesse condizioni, una lucertola invece cercherà l’acqua, la scoprirà e la berrà. Le strategie elaborate poi da un piccolo mammifero saranno ancora più sofisticate di quelle della lucertola.
La ricerca di una fonte d’acqua, in realtà, richiede molteplici conoscenze: la mappa dell’ambiente, il punto in cui si trova l’acqua, il tragitto da compiere, l’eventuale presenza di predatori. Queste operazioni sono attivate dalle connessioni neurali, le quali contribuiscono a “collegare” le molte aree cerebrali implicate. Si sviluppa così un sistema di “integrazione” che centralizza le informazioni, creando uno spazio nel quale- grazie alla corteccia cerebrale- si elabora una “pianificazione cosciente” dei comportamenti a venire. Le emozioni primordiali dunque svolgono un ruolo cruciale negli stati di coscienza.
Una delle qualità essenziali della mente è il possesso della facoltà di utilizzare “simboli” (Kenny). A questo proposito Donald Griffin, un autore che ha un ruolo fondamentale nell’aver posto in primo piano il tema della coscienza negli animali, cita il simbolismo insito nella danza delle api- “waggle dance”. E’ l’attività dell’ape a fare della sua danza un mezzo di comunicazione simbolica, come la ricerca di una nuova dimora, la ricognizione di luoghi e fonti di cibo o la ricerca di informazioni sulla qualità, la direzione e la distanza del luogo. Questi comportamenti evidenziano che le api sono in grado di esprimere “pensieri semplici”.
Le informazioni sensoriali e la categorizzazione percettiva di segnali visivi portano in sostanza alla definizione di coscienza, che è la capacità di costruire- secondo Edelman- una “scena mentale integrata” nel presente. Circa i processi cognitivi di apprendimento e memoria, esperimenti condotti sulle attitudini cognitive dei piccioni hanno rivelato che questi uccelli sono capaci di distinguere i colori e a riconoscere, tra decine di fotografie, quelle che ritraggono figure umane, alberi o palazzi (Herrnstein). I pulcini invece imparano ad evitare di ingerire cibo o di bere un liquido dal sapore amaro.
L’idea che nei pesci possa esistere qualche forma di coscienza è contestata da J.D.Rose, il quale basa il suo pensiero sul fatto che i pesci non possono provare dolore. E’ valutazione condivisa che per esprimere il dolore occorre essere coscienti. La consapevolezza del dolore dipende da specifiche regioni cerebrali. Nei pesci queste regioni mancano, ragione per cui mancano i requisiti neurali necessari per sentire il dolore.
L’argomento dei fenomeni mentali nei rettili, animali che costituiscono la derivazione di un ceppo ancestrale da cui sono discesi sia i mammiferi sia gli uccelli, è stato affrontato in particolare da Gordon Burghardt, il quale sostiene che i rettili dovrebbero essere studiati quali “precursori filogenetici” di tutti gli animali dotati di comportamenti complessi. E’ stato lo studioso G.G.Romanes, amico di Darwin, ad attribuire ai rettili “emozioni e intelletto”. Quando avverte la presenza di un predatore, il serpente “Heterodon nasicu”, ha osservato Burghardt, simula la morte, resta immobile, la bocca aperta, la lingua stesa in fuori e la sua respirazione sembrerà cessata. Risposte di immobilità sono state osservate anche in molti mammiferi e in uccelli. Con la simulazione della morte nel serpente, si ottengono dati sperimentali che “concordano” con le ipotesi di Griffin di uno stato di coscienza negli animali.
Gli esperimenti compiuti da J.S.Beritoff sulla memoria delle immagini nel cane e sui comportamenti di lucertole, tartarughe, uccelli, babbuini e gatti mostrano che i loro atteggiamenti intenzionali sono indice di “una immagine mentale” e dunque sono espressione di una “coscienza”.
L’idea di intenzione, così come l’idea di obiettivo, è per Longuet-Higgins “parte integrante del concetto di mente”. Si può quindi ritenere che un organismo capace di avere “intenzioni” possegga “una mente” per elaborare un piano e prendere una decisione.
Oggi, è abbastanza comune fra gli scienziati- citiamo per tutti Young, Hebb e Hoch- considerare le risposte di un animale “il possibile prodotto di processi coscienti e di processi mentali”.
Già Darwin aveva osservato molti aspetti del comportamento animale, in particolare le emozioni, come riflessi di “stati coscienti”. Come osserva Miriam Rothschild, chiunque metta in dubbio la capacità degli animali di provare emozioni dovrebbe provare a portare un cane dal veterinario dopo che ci è già stato una prima volta. E’ un’esperienza che abbiamo fatto personalmente prima con Apollo alcuni anni fa e ora con il cucciolo Kimi: soltanto attraversare la strada in cui ha sede lo studio del veterinario, crea uno stato di irrequietezza e di ansia.
I dati ottenuti da Changeux e colleghi fanno inoltre ritenere che anche i topi dimostrano un comportamento complesso volto al raggiungimento di un obiettivo. In realtà, l’idea di obiettivo e di intenzione, come abbiamo già detto, è parte integrante del concetto di mente.
Concludendo su questo delicatissimo e complesso tema, possiamo dire che i risultati della ricerca portano al centro dell’analisi sia il concetto di Griffin, forse il massimo esponente in materia, di una coscienza negli animali (rectius: in molti animali c’è un certo livello di coscienza) sia l’idea di altri autori come Longuett-Higgins sul comportamento intenzionale quale espressione di “un’immagine mentale”.
Per comprendere in maniera ancora più chiara la questione, diciamo che la funzione della coscienza è subordinata al fatto di essere “innestata” in un corpo, cioè alla consapevolezza del proprio stato corporeo in relazione a ciò che ci succede intorno. E’ lo stato corporeo che genera sensazioni e sentimenti. E la coscienza è costituita da sensazioni. Ciò fa ritenere che qualsiasi animale dotato di un tronco encefalico sia in grado di servirsi della coscienza.
Tutti i mammiferi hanno un tronco con nuclei e connessioni strutturati pressappoco come i nuclei umani (Solms, Turnbull). Vi sono buoni motivi per stimare che cani, gatti pinguini, balene, ratti e topolini possiedano una coscienza. Le stesse strutture elementari rendono un topo e un essere umano egualmente capaci di distinguere tra ciò che è “buono” e ciò che è “cattivo”. I topi, ad esempio, possono sentire un eccitante piacere quando si aspettano il soddisfacimento di un bisogno; provano paura in presenza di un nemico; sentono rabbia quando viene loro impedito il raggiungimento di una meta desiderata; soffrono se vengono separati dalla madre o dai propri simili, e così via.
Esistono, al riguardo, percezioni e reazioni affettive in larga parte di tipo innato e universale. Queste reazioni affettive vengono chiamate “emozioni di base”. La vista di un serpente, per esempio, determina sia nell’uomo che nel cane un sentimento di paura.
Noi condividiamo con tutti gli altri mammiferi tali “emozioni di base”. I cani, i gatti, i delfini, le balene, i ratti, i topi: tutti possiedono i meccanismi adattativi, cioè le “emozioni di base”. Le quali sono per l’appunto gli elementi costitutivi della coscienza. Come volevasi dimostrare.
Vi sono tuttavia livelli “superiori” di coscienza, come “coscienza di coscienza”, che non condividiamo con gli altri mammiferi.
Oggi, gli studi più recenti che cercano prove di una qualche forma di metacognizione animale sono attraenti, ma necessitano di ulteriori approfondimenti prima che se ne possano trarre conclusioni definitive. Il fatto è che il nostro cervello- per usare una bella immagine di Gazzaniga- è simile a “un organo a canne, che suona la sua musica tutto il giorno e ha molte melodie da suonare”, mentre il cervello dell’animale ne ha poche. Più cose allora sappiamo, migliore è “il concerto”.
GENI, NEURONI SPECCHIO E CULTURA NEGLI ANIMALI
Le scimmie- è una grande scoperta di questi anni- possiedono i neuroni specchio. I quali sono stati localizzati per la prima volta proprio nel cervello delle scimmie. Essi si attivano quando, ad esempio, una scimmia afferra un attrezzo; ma si attivano anche quando la scimmia guarda un’altra scimmia afferrare l’oggetto. Il sistema dei neuroni specchio è alla base del riconoscimento delle intenzioni e delle emozioni altrui, rende possibile l’apprendimento imitativo e la comunicazione.
Gli animali perciò apprendono la cultura. Uno studio ha mostrato che almeno 39 tipi di comportamenti diversi negli scimpanzé sono effetti della cultura.
Il colore, definito da Kandinsky “un mezzo per influenzare direttamente l’anima”, ha un impatto considerevole non soltanto sugli esseri umani, ma anche sugli animali. Nel corso delle sue ricerche, Humphrey ha scoperto che le scimmie “rhesus” di fronte alla luce rossa hanno “forti risposte emozionali”: diventano ” ansiose, irrequiete e agitate”, mentre quando la luce è blu divengono tranquille. Nell’ordine, esse preferivano il blu al verde, il verde al giallo. il giallo al rosso. In genere, anche gli esseri umani mostrano gli stessi comportamenti. Descrivono la sensazione del rosso come “forte, calda, eccitante e disturbante”. Si è scoperto altresì che la luce rossa suscita comportamenti aggressivi e litigiosi (Porter), nonché sintomi fisiologici dell’eccitazione sessuale.
A livello generale, i nostri cervelli e quelli degli scimpanzé sono strutturati in maniera quasi “identica” (Marcus). Entrambi hanno cortecce occipitali nel retro del capo, dove analizzano le informazioni. Entrambi poi hanno i cervelli suddivisi in emisfero destro e sinistro.
Dal punto di vista evolutivo, ci siamo separati dagli scimpanzé solo di recente, forse solo dai 4 ai 7 milioni di anni fa (Brunet) rispetto ai circa 85 milioni di anni da quando esistono i primati (Tavare e Martin). Il linguaggio e la mente umana vengono da quell’1,5 per cento di materiale genetico che ci separa dagli scimpanzé, ma anche dal 98,5 per cento che è condiviso.
Gli umani e le grandi scimmie, come gli oranghi, i gorilla, gli scimpanzé, si sono evoluti tutti – afferma Gazzaniga- da “un antenato comune”. L’essere umano è l’unico ominide sopravvissuto del ramo originario separatosi dall’antenato comune con lo scimpanzé. E’ il caso di Lucy, fossile trovato nel 1974 che sconvolse il mondo della scienza in quanto bipede, ma priva di un cervello di grandi dimensioni.
Nel tempo, la nostra anatomia corporea è cambiata, fornendo le basi necessarie per lo sviluppo di alcune caratteristiche che ci rendono unici. Il bipedismo ha reso le mani libere di agire. I nostri pollici arcuabili e opponibili ci hanno permesso di sviluppare la migliore coordinazione motoria tra le specie. La nostra laringe poi ci ha permesso di emettere un numero infinito di suoni che noi utilizziamo nel linguaggio. Altri cambiamenti sono avvenuti inoltre nel nostro cervello, cambiamenti che ci hanno permesso di comprendere che gli altri hanno pensieri, credenze e desideri.
Anche gli uccelli, come le api e gli altri animali, mostrano attitudini all’apprendimento. Nei loro cervelli vi sono regioni associate al rilevamento del gusto, dell’odore e del suono, al movimento, alla memoria spaziale e all’apprendimento del canto. Alcuni uccelli come i canarini possono imparare un numero di canti sottilmente differenti. Altre specie- le cince e le ghiandaie- sono capaci di fare scorta di centinaia di alimenti differenti durante l’estate per poi farne uso durante l’inverno. Sembra che imparare una canzone richieda sistemi neurali diversi nell’uccello canoro.
I castori costruiscono dighe e proteggono il loro confine con ramoscelli e fango, mentre i ragni filano le ragnatele. La lumaca raccoglie il calcio dal suo cibo e lo usa per secernere una conchiglia. A sua volta, il paguro si procura una conchiglia di calcio già fatta. L’organizzazione di una colonia di termiti è così meravigliosa che alcuni osservatori hanno pensato che ogni colonia deve avere un’anima (Marais).
Ci sono specie che riescono a colpirci per la loro capacità di “godersi la vita e divertirsi”. Pensiamo alle lontre, le quali si rotolano gaie nella neve, ai leoncini che si danno la caccia e ai nostri cani e gatti.
Con gli altri animali condividiamo inoltre la maggior parte dei nostri geni e dell’architettura del nostro cervello. Affermare- come fa il neuroscienziato Gazzaniga- che siamo “differenti” e unici nel regno animale, è una cosa ovvia, quasi banale.
Sta di fatto che gli animali presentano sin dalla loro comparsa istinti innati. I pulcini, ad esempio, appena usciti dal guscio sembrano avere la “permanenza” degli oggetti (Regolin). Piccoli cuccioli di Labrador possono seguire lo sguardo dei loro padroni (Coppinger). I cavalli sanno controllare i propri muscoli abbastanza bene da saper camminare già pochi minuti dopo la nascita. Anche i comportamenti più complessi sembrano innati. Nella danza di corteggiamento del maschio di un moscerino della frutta, per esempio, il piccolo animale esegue una sequenza di eventi che non ha mai visto prima.
I riflessi di auto-igiene di molti animali obbediscono spesso a comportamenti prefissati. Un topo inizia con il capo, procede verso il tronco e la regione ano-genitale e finisce con la coda (Sachs). Molti, forse tutti, gli animali non solo nascono con la capacità di percepire e agire, ma anche con la capacità di imparare e di utilizzare le esperienze passate per migliorare i comportamenti futuri (Marcus). Un comportamento che Marler ha definito “l’istinto a imparare”.
Il mondo animale- afferma Gallistel- è pieno di attitudini all’apprendimento. Pensiamo al comportamento di un uccello chiamato “ministro”, il quale usa le stelle come una carta nautica per trascorrere l’estate negli Stati Uniti e svernare alle Bahamas. Le api a loro volta utilizzano un meccanismo di apprendimento per aiutarsi a comprendere dove stiano andando, basandosi sulla traiettoria del sole. Due studiosi dell’Università della Georgia hanno dimostrato che anche i ratti possiedono la capacità di riflettere sui propri pensieri. Capacità che viene chiamata metacognizione. I ratti imparano a evitare
di bere da un getto d’acqua se ogni volta che lo fanno ricevono una scarica elettrica. Hanno inoltre capacità di apprendimento olfattivo. Gli studi di Kandel sulla lumaca marina “Aplysia” sono stati fondamentali per indagare le basi neurali dell’apprendimento e della memoria. Anche la ricerca sul Moscerino della frutta “Drosophila” è stata determinante ai fini della conoscenza del comportamento e del funzionamento del cervello.
GLI ANIMALI HANNO UN SENSO MORALE ?
Ci sono comportamenti comuni che condividiamo con altre specie. Ci arrabbiamo di fronte alle violazioni di proprietà o agli attacchi alla nostra coalizione intenta a raccogliere cibo, proprio come fanno i cani e gli scimpanzé. In questo senso, noi diciamo che alcuni animali possiedono una “moralità imitativa” (Gazzaniga). La principale differenza consiste nel fatto che gli esseri umani possiedono una maggiore qualità, quantità e varietà di emozioni morali, come per esempio, la vergogna, il senso di colpa, il disgusto, il disprezzo, l’empatia, la compassione, nonché una maggiore varietà di comportamenti.
La ricerca mostra che in realtà esiste la possibilità che alcune capacità che sottendono la nostra facoltà morale siano presenti in animali non umani. Gli animali provano emozioni che motivano azioni che “possiedono una specificità morale”, come aiutare, danneggiare gli altri, così come riconciliare le differenze allo scopo di “ottenere un po’ di pace” (Hauser).
Gli animali possiedono forme di empatia?
Intendiamo per empatia un sistema simile a quello dei neuroni specchio, che implica la capacità di provare la stessa cosa che prova qualcun altro. L’evidenza di forme di auto riconoscimento nei delfini denota un nesso tra imitazione, empatia e senso del sé. Anche agli elefanti vengono associati comportamenti sociali e comportamenti empatici.
C’è poi qualche prova che gli scimpanzé abbiano una sensibilità estetica?
Esperimenti condotti in materia hanno riscontrato che se provvisti di matite o colori, gli scimpanzé si appassionavano nell’utilizzarli, fino al punto di trascurare addirittura “i loro cibi preferiti”. Ad alcuni di essi piace disegnare. Una serie di dipinti fatti da uno scimpanzé è stata recentemente venduta all’asta per “dodicimila sterline” (Gazzaniga). In letteratura scientifica c’è anche il caso dell’uccello giardiniere, che ha “eccellenti doti” di architetto e artista, in quanto per attirare la femmina costruisce grandi giardini multicolori di steli intrecciati (Ramachandran).
L’ANSIA NEGLI ANIMALI
Per ansia, intendiamo una normale risposta innata a una minaccia o all’assenza di persone o di oggetti che assicurino o trasmettano sicurezza. Essa si manifesta in forma sia soggettiva- che va da un accentuato stato di vigilanza al senso di catastrofe imminente- che oggettiva come marcata reattività, stato di irrequietezza, modificazioni neurovegetative (variazione della frequenza cardiaca e della pressione del sangue).
L’ansia può avere un valore di adattamento, preparandoci ad affrontare un potenziale pericolo e a farci superare circostanze difficili. Quando diventa forte e persistente, l’ansia è patologica. Questa patologia inoltre è una componente dei disturbi psicotici e nevrotici.
Il disturbo d’ansia è stato studiato, impiegando modelli animali. L’ansia è una condizione tipicamente umana, ma è stato scoperto che anche animali meno complessi possono apprendere una risposta ansiosa. Forme d’ansia sono state studiate in animali come i ratti e le scimmie. Quello che è sorprendente è la scoperta di Kandel, neuro scienziato e premio Nobel, che anche animali più semplici, come la lumaca marina, “Aplysia”, vanno incontro a modificazioni comportamentali.
In modo simile a quanto avviene nell’uomo, gli animali mostrano comportamenti che evocano l’ansia anticipatoria (la paura). Recenti scoperte mostrano che “qualunque” forma di ansia si manifesta in “qualunque” animale (Kendal). Grande rilievo assumono gli esperimenti condotti sui roditori. Si è scoperto che i cuccioli di topo manifestano comportamenti reattivi alla separazione, consistenti in ripetuti richiami, in un comportamento agitato e di disperazione, nella tendenza a pulirsi compulsivamente il pelo, nella perdita di calore, nella perdita di cibo e nella perdita di stimolazione tattile (Hofer).
Gli esperimenti hanno poi dimostrato che la maggior parte degli animali, tra cui l’uomo, possiede un repertorio di comportamenti difensivi innati. Prima Pavlov poi Freud hanno riconosciuto che l’ansia può essere appresa e acquisita, e conservata tramite la memoria, senza tuttavia escludere il contributo di una predisposizione genetica. Gli animali dunque possono imparare varie forme di ansia come l’ansia anticipatoria e l’ansia cronica.
Non solo il cane e l’uomo, ma la maggior parte dei primati mostrano sintomi di paura e di disgusto nei confronti dei serpenti. L’odio verso i rettili ha un’origine biologica. Questa avversione viene motivata dal fatto che i serpenti evocano una particolare e intrinseca sensazione di repulsione attivata dai sistemi cerebrali di predisposizioni innate. Queste producono ansietà e paura, presentano varie implicazioni di pericolo e di violenza e favoriscono il rilascio di adrenalina, dando l’avvio a comportamenti di fuga o di combattimento.
TERAPIE DELL’ANSIA
Ci sono due tipi di terapia: la prima è la cura con gli psicofarmaci: molecole “capaci” di arrivare direttamente al cervello. La seconda è la psicoterapia. L’uso protratto di farmaci, anche a basse dosi, induce dipendenza psicofisica e assuefazione. Gli psicofarmaci infine hanno valore sintomatico.
Una terapia farmacologica sbagliata può fare gli stessi danni di una cattiva psicoterapia.
FONTE

ELOGIO DEL CUCCIOLO KIMI
Sull’ intelligenza e sul processo di apprendimento degli animali in generale, e del cane in particolare, importanza fondamentale assume la scoperta di Pavlov della “reazione condizionata”, cioè dei riflessi psichici. Con questa scoperta, consistente nell’apprendimento di un’associazione da parte del cane tra il suono di una campanella e la comparsa del cibo, aspettandosi il cibo ogni volta che sentiva la campanella, Pavlov diede la spinta allo sviluppo della moderna teoria dell’apprendimento e al movimento behavioristico in psicologia. Egli è perciò considerato lo studioso che dopo Freud ha maggiormente influenzato la psicologia contemporanea.
Gli esperimenti successivi di Tinkelpaugh mostrano che il cervello del primate si è evoluto per fissare “aspettative”. Molti scienziati poi hanno cercato di “decodificare” cosa dicono e cosa provano gli animali quando comunicano. Fin dai tempi di Darwin sappiamo che gli animali provano emozioni. Il cane che abbaia, il gatto che fa le fusa, o una scimmia che urla esprimono emozioni.
Il problema è sapere tuttavia se le nostre interpretazioni riflettono veramente le esperienze soggettive dell’animale. La paura ad esempio è uno stato emotivo che provano molti animali, forse a causa del ruolo “adattativo” nell’evitare i predatori e i rivali (Hagan).
Diversamente dagli esseri umani e dalle scimmie, i topi non possiedono un’espressione del viso tipica della paura. Rispondono immobilizzandosi. Nel processo di addomesticamento, gli animali devono perdere sia la paura degli uomini sia la propria tendenza a essere aggressivi. Osservando gli animali addomesticati come i cani, i gatti e molti animali che vivono nelle fattorie, è emersa una generale riduzione dell’aggressività.
I cani sono creature giocose e nel corso dell’evoluzione hanno utilizzato gesti ludici che guidano il gioco, compresi gli inviti a giocare e il segnale che l’intenzione è amichevole e non aggressiva.
La fiorente ricerca sulla lettura della mente negli animali presenta in proposito un quadro sempre più simile ai comportamenti dei bambini. Esistono analogie sorprendenti nel modo in cui gli animali elaborano come i bambini le azioni e le emozioni.
Cani e uccelli e le specie più vicine come le scimmie mostrano un’attenzione condivisa, una lettura degli scopi e delle intenzioni, nonché dell’uso della vista per tracciare inferenze sulla conoscenza.
L’INTELLIGENZA DEL CANE
Sono stati riscontrati comportamenti intelligenti negli animali, anche se non possono essere assimilati a quelli dell’uomo.
Nelle sue ricerche sui cani, Stanley Coren collega i comportamenti intelligenti dei cani alla lunga convivenza con l’uomo, cioè ad una forma di adattamento funzionale del cane all’uomo.
Si riconosce che forme di ragionamento elementare sono presenti in altri esseri viventi non umani e che forme di comunicazione sono ugualmente presenti in altri esseri viventi non umani. Da ricerche effettuate e da osservazioni empiriche si hanno riscontri precisi su comportamenti, circa intelligenti, diffusi un po’ dovunque nel mondo animale. Questi comportamenti presuppongono una qualche forma di attività da parte di un organo cerebrale che nell’uomo assume il nome di mente.
Oggi, la concezione di molti autori è orientata sulle simmetrie esistenti tra gli esseri viventi più che sulle asimmetrie. Tutti i processi di vita vengono, infatti, assunti come il risultato dell’evoluzione. La quale ha interessato tutti gli esseri del mondo, una linea di continuità che lega e attraversa tutti gli esseri viventi.
Riconoscere tuttavia comportamenti tipicamente “umani” nel mondo animale non deve significare misconoscere ciò che costituisce lo specifico dell’essere dell’uomo. La differenza tra gli esseri del mondo animale è determinata dalla presenza nell’uomo della capacità di pensare e parlare. Capacità che è all’origine del passaggio dell’uomo dall’animalità all’umanità. Una condizione assente nel mondo animale non umano o, se presente, del tutto diversa quanto a modalità di espressione e di apprendimento.
Esistono poi anche notevoli differenze comportamentali e intellettive tra le diverse razze di cani. Alcuni reperti ossei inoltre rinvenuti negli Usa indicano che la convivenza tra umani e cani risale a circa 11 mila anni orsono.
Sussistono diversi livelli di intelligenza nei cani. Coren suddivide l’intelligenza canina in tre categorie: quella istintiva, che il cane possiede dalla nascita; quella di adattamento, che dipende dalla capacità di imparare dall’ambiente e quella di ubbidienza, che è l’equivalente dell’apprendimento scolastico. Esiste anche un altro livello di intelligenza nei cani: la loro abilità a farsi capire e a capirci.
Che cosa si intende per intelligenza?
Invero, c’è una sterminata letteratura in materia di intelligenza. In questa sede, diciamo che per intelligenza noi intendiamo la facoltà di comprendere prontamente, ovvero l’atto di capire, distinguere e risolvere problemi.
Il primo a porsi il problema sull’intelligenza dei cani fu Aristotele, il quale sosteneva che essi differiscono dall’uomo solo nel grado di possesso delle doti mentali, ammettendone così l’intelligenza. Il filosofo greco descrisse fra l’altro il comportamento alimentare delle api e il comportamento riproduttivo dei cefalopodi.
Darwin ha sostenuto che “i sensi e le intuizioni, le varie emozioni e facoltà delle quali l’uomo va fiero, come amore, memoria, attenzione, curiosità, imitazione, ragione eccetera possono essere riscontrate in una fase incipiente e talora persino sviluppata negli animali inferiori”.
Secondo alcuni ricercatori, l’intelligenza del cane non è altro che un insieme di abilità mentali primarie ciascuna delle quali viene considerata come una facoltà a se stante.
Lo psicologo Howard Gardner, a sua volta, distingue sette intelligenze di cui alcune sono possedute anche dal cane.
L’intelligenza spaziale, che consiste nella capacità di avere presente l’organizzazione di quanto ci circonda, come ad esempio, il luogo in cui si trovano gli oggetti o la distanza fra due punti. Il cane sa localizzare oggetti, evitare luoghi pericolosi, trovare la via più breve verso la cuccia, aprire un chiavistello, rammentare dove si trova il suo giocattolo o il guinzaglio.
L’intelligenza corporeo-cinestetica. Corrisponde alla capacità di muovere il corpo in risposta alle varie situazioni: scrivere, fare sport, cacciare o per quanto riguarda il
cane, entrare nei cespugli, salire sulle scale a pioli, partecipare a gare di agilità, ecc.
L’intelligenza interpersonale: svolge determinati compiti o ruoli, come per esempio quello di capobranco. Essa si rivela anche quando il cane inizia a socializzare con altri o tenta di comunicare i propri bisogni.
L’intelligenza linguistica. Quando si chiama il cane o gli si dà determinati ordini ci accorgiamo che il nostro cucciolo possiede proprio tale capacità linguistica. Il cane poi riconosce il linguaggio del corpo anche in relazione alle emozioni e alle diverse situazioni sociali. Di fronte a un individuo arrabbiato, si mette quieto o addirittura se ne va.
Le ricerche hanno dimostrato inoltre che le capacità mentali dei cani equivalgono a quelle di un bambino di 2-2,5 anni. I più intelligenti sono considerati i Border Collie, al secondo posto c’è il barboncino e solo al terzo posto il pastore tedesco. Il Doberman occupa la quinta posizione, mentre al Labrador viene assegnato il settimo posto.
I cani possono imparare 165 parole, sono capaci di cantare e di imbrogliare deliberatamente i loro simili e gli umani.
Essi si interessano a quello che pensano gli uomini, sono capaci di osservare un individuo, prestando attenzione a dove sta guardando (Hare). I cani infine hanno senza dubbio capacità sociali migliori di altri animali e sono in grado di capire gli sguardi meglio degli scimpanzé.
“Non saranno Einstein, ma- scrive Stanley Coren- sono di sicuro molto più del previsto simile a noi”. Vale a questo punto anche l’aforisma: “Più conosco gli uomini, più amo i cani” (M.de Savignè).
Dai tempi della domesticazione, il cane ha servito l’uomo, mettendogli al servizio le sue innumerevoli doti fisiche, psichiche e soprattutto la fedeltà, che rimane un po’ il tratto caratteristico di questa specie.
Il più antico caso di domesticazione degli animali che si conosca risale a oltre 10 mila anni fa, quando resti umani e di cane compaiono per la prima volta nello stesso luogo di sepoltura. La domesticazione presenta una serie di caratteristiche come tendenza ad avere orecchie più flosce, il pelo ondulato o riccio e la coda più corta dei loro simili selvatici. Un’altra sua rilevante conseguenza è la diminuzione delle dimensioni del cervello.
Tutte le questioni esaminate nel presente lavoro confermano dunque che nella ricostruzione del cammino percorso negli ultimi anni le neuroscienze ci forniscono risposte chiare e convincenti, comunque scientificamente verificabili.
Così, sappiamo che ogni animale, come ogni essere umano, ha una sua personalità. Una scoperta sensazionale è che non solo gli animali presentano tratti individuali nel comportamento, ma le variabili caratteriali nel tempo possono mutare. Si assume inoltre che le caratteristiche di personalità- l’individualità- sono modellate e rimodellate da fattori poligenici, dallo sviluppo e dall’esperienza e costituiscono altresì una condizione essenziale per la sopravvivenza di ciascuna specie (Aamodt e Wang).
LEGAME DI COPPIA
Riguardo all’amore e al sesso negli animali, gli studiosi parlano di “legame di coppia”, non di amore. Una ricerca tuttavia ha scoperto che l’arvicola della prateria, un piccolo roditore, rimane con lo stesso compagno tutta la vita. Un fatto inconsueto, poiché solo il 3-5 per cento dei mammiferi è monogamo. Entrambi i genitori si occupano della prole e quando un’arvicola rimane sola, di solito rifiuta di prendere un altro compagno.
Il legame di coppia è controllato da due neurotrasmettitori, l’ossitocina e la vasopressina, e si forma anche per mezzo dell’apprendimento condizionato, come ad esempio l’odore del partner. Esistono poi evidenze che mostrano come gli stessi circuiti neurali coinvolti nella creazione del rapporto di coppia siano alla base anche dell’attaccamento delle madri ai figli. Per il legame tra madre e figlio è, infatti, necessaria l’ossitocina.
Le scoperte in questo campo rivelano che oltre all’ossitocina anche i circuiti cerebrali della gratificazione sono elementi importanti sia per il legame di coppia sia nell’innamoramento. Secondo gli studi di Insel sembra che anche le pecore abbiano bisogno di ossitocina per formare l’attaccamento fra madre e prole, mentre i topi no. Fra gli scimpanzé, i legami di coppia sono sconosciuti probabilmente perché le regioni del loro cervello contengono meno recettori per l’ossitocina.
Nel 1992 William Jankowiak studiò 168 diverse culture etnografiche e non trovò nessuna che non conoscesse “l’amore romantico”. Queste ricerche confermano in sostanza quanto sostenuto da William Janes, e cioè che l’amore sia un istinto evoluto per selezione naturale e faccia parte del patrimonio della nostra specie proprio come “il possesso di quattro arti e di una mano con cinque dita”. I dati della ricerca poi provano che sebbene la poligamia sia ammessa nella maggior parte delle società, a prevalere siano le relazioni monogame, e nel fatto che gli esseri umani praticano “cure parentali”.
Nella ricerca delle differenze sessuali le più studiate sono quelle che hanno a che fare con la formazione della coppia. Sono emerse molte somiglianze. Entrambi i sessi desideravano partner intelligenti, onesti, degni di fiducia e cooperativi. Ma sono emerse anche alcune differenze. Le donne preferivano uomini più vecchi di loro, ambiziosi e con uno status alto. Agli uomini piacevano donne belle, giovani e fedeli. Questi studi provano che le somiglianze e le differenze fra i sessi siano universali (Buss). In una indagine sui fattori che determinano il comportamento sessuale negli esseri umani e negli animali, lo psicologo Diamond ha rilevato che i ruoli sessuali non sono il frutto di esperienze precoci, come sostenuto dal suo collega Money, ma innati. “Il più grande organo sessuale si trova- sostiene Diamond- in mezzo alle orecchie e non fra le gambe”. Nello storico e dibattuto confitto eredità-ambiente, la nostra concezione è per il superamento di entrambe le posizioni. Noi sosteniamo che l’identità sessuale è determinata sia da influenze ambientali e socio-culturali che da una base innata, istintiva, genetica.
Il comportamento sessuale è controllato dall’ipotalamo, un’area del cervello importante anche per altre funzioni fondamentali come mangiare, bere e regolare la temperatura corporea. Sembra inoltre che l’attivazione del comportamento sessuale in età adulta dipenda dal testosterone, l’ormone associato alla libido sia nei maschi che nelle femmine, nonché da tutta una serie di modelli comportamentali e di rapporti sociali.
Una ricerca effettuata da scienziati olandesi ha studiato l’attività del cervello durante l’orgasmo con i metodi di neuro imaging. Si è scoperto che in entrambi i sessi durante l’orgasmo si attivava il sistema di gratificazione del cervello e aumentava l’attività nel cervelletto, che di recente è stato collegato “all’eccitazione emotiva e alla sorpresa sensoriale” (Aamodt e Wang).
PET THERAPY. IL CANE COME REGOLATORE EMOTIVO E TERAPEUTA
Oggetto di amore e di coccole, il cane da sempre si è dimostrato un prezioso collaboratore dell’uomo. Il cane da pastore, il cane guida per non vedenti, il cane poliziotto, il cane da caccia: tutti questi comportamenti forniscono un grande contributo di sostegno e di aiuto, carico di valori e di significati morali. Si realizza in sostanza una straordinaria relazione di fiducia, di comunicazione e di scambio.
In questo senso, è riduttiva l’idea che il cane sia semplicemente “condizionato” secondo lo schema stimolo-risposta (S-R). E’ stato, infatti, dimostrato che il cane- ma così anche altri animali domestici- è in grado di rispondere ai gesti e, come abbiamo già detto, allo sguardo dell’uomo.
Dobbiamo perciò guardare al cane non secondo una prospettiva meccanicistica, ma- afferma Alva Noe- come a un “essere pensante”, cioè a un essere dotato di “mentalità” (almeno) primitiva, in grado di modellare sentimenti e pensieri.
Più recentemente infine ha preso forma assieme ad altri animali quel tipo di aiuto indirizzato ad anziani, malati, disabili e bambini, che la scienza ha denominato “pet therapy”, la terapia attraverso il contatto con il cane. Che trasmette, come abbiamo già in precedenza sostenuto, emozioni, stimola il sorriso, invita al gioco. Soprattutto, il cane dà affetto, induce sedazione neuromotoria, calma, tranquillità interiore. Tutti fattori che hanno effetti benefici sia sul piano biologico che su quello mentale, potendo così contrastare stati di ansia, irrequietezza, depressioni, stress e i molteplici malesseri indotti dalla vita quotidiana. E’ stato accertato che soggetti con problemi psichiatrici spesso sperimentano un sollievo sintomatico dopo aver preso un cucciolo. Molti psicoterapeuti impiegano i cani per aiutare i loro pazienti ad ottenere forme di rilassamento e sedazione.
Il cane così viene ad assumere il valore sbalorditivo di “regolatore psico-emotivo”, nonché la stupefacente funzione di un perfetto terapeuta. In pratica, cosa succede nel nostro cervello? Succede che vengono attivati centri neurali, i quali possono produrre un accrescimento dei livelli di dopamina, serotonina, ossitocina ed endorfine. Queste sostanze creano un senso di benessere e di euforia. Il loro impatto psico-emotivo sull’essere umano e sul cane, da un lato comporta l’inibizione dell’attivazione dell’amigdala, un’area chiave dei circuiti dell’ansia e della paura. Dall’altro, ci fa sentire calmi, sicuri e felici. E meno ansiosi e in allerta.
Si determina una condizione emozionale, che modella le nostre esperienze di legame e il nostro vissuto esistenziale, promuovendo un profondo senso di sicurezza e contribuendo a generare stati psicologici e mentali positivi.
Ricerche di laboratorio hanno portato alla scoperta che negli animali il sistema degli oppioidi modula il richiamo di dolore, il processo di attaccamento di madre e figlio, il gioco, il “grooming”, il comportamento di affiliazione e l’eccitazione sessuale (Vanderschuren et al.). Quando i primati si avvicinano per fare amicizia, “grooming” o per gioco, i livelli delle endorfine aumentano (Keverne).
Le sensazioni di tristezza, disagio e ansia avvertite dalle madri quando sono separate dal proprio neonato sono provocate in gran parte dal rapido crollo del livello delle endorfine innescate dalla separazione. La quale produce anche nel neonato una diminuzione del livello delle endorfine, uno stato di ansia e un’esperienza di sofferenza e malessere. I cuccioli separati dalla madre strillano o emettono richiami di sofferenza o di disagio, accrescendo la reattività comportamentale allo stress. Il quale viene accertato attraverso la valutazione del livello di cortisolo. Da adulti, questi animali presentano chiari sintomi di disturbi comportamentali.
Non vi è niente capace inoltre di attirare l’interesse de bambino come un cucciolo di cane amichevole. Come affettuoso animale domestico, il cane ha il grande dono di influire sui nostri stati mentali soggettivi, sulle nostre emozioni e sulla nostra salute fisica.
L’amore, l’affetto, non è prendere il latte dal seno materno: è qualcosa di innato.
Come improvvisi raggi di sole riescono a squarciare il buio di un cielo piovoso, così la presenza di un cane riesce a illuminare le tenebre dell’anima e la sofferenza di tanti esseri umani verso condizioni più umane e umanizzate, ammantate da raggi di serenità, di gioia e di felicità.
Questa è la grande, incommensurabile essenza affettiva, emozionale e “curativa” che il nostro cucciolo riesce ad esprimere. Un dono fenomenale elargito dalla Providenza all’umanità.
Se sapessero (rectius: avessero la capacità), ci piace ribadire il concetto, in minima parte “imitare” e apprendere dall’indole meravigliosa di inesauribile amore, di affetto e di lealtà che il nostro cane sa sempre e in ogni occasione sprigionare, gli esseri umani vivrebbero bene, vivrebbero meglio, vivrebbero più a lungo. E in pace con se stessi e con gli altri…
E lo chiami “cane”? E lo chiami “homo sapiens sapiens”? “Ma mi facci il piacere”! direbbe il grande Totò.
CONCLUSIONI
Nel XVII secolo Cartesio, iniziatore del razionalismo moderno, stabilì che solo l’uomo è un essere razionale, ponendo come principio del sapere il “cogito ergo sum”, cioè la certezza del proprio pensiero e della propria esistenza. Decretò poi un netto dualismo tra pensiero -“res cogitans”- e materia- “res extensa”. Gli animali, per il filosofo francese, non agiscono “per conoscenza, ma soltanto per la disposizione dei loro organi”.
Dopo Cartesio, diversi autori cominciarono a riconoscere al cervello animale capacità di ragione e pensiero. Lo psicologo George Romanes elogiò l’intelligenza degli animali da compagnia, portando come esempio cani capaci di togliere il chiavistello a una porta e gatti che parevano capire i propri padroni. Egli riteneva che l’unica spiegazione del loro comportamento fosse una scelta “consapevole”. Approfondendo la materia, si spinse oltre, fino a sostenere che ogni specie animale avesse una mente simile a quella umana, solo “congelata” a uno stadio equivalente a una particolare età dell’infanzia. Secondo Romanes uno scimpanzé aveva la mente di un preadolescente e un cane era l’equivalente mentale di un bambino più piccolo. Queste idee risentono della mancanza di ricerche approfondite e di dati sperimentali, i quali non ci permettono di esprimere valutazioni attendibili sul mondo degli animali.
In psicologia il “mentalismo” viene smantellato e si afferma una nuova concezione, il comportamentismo (behaviorismo). La quale ritiene il comportamento esteriore dell’individuo il solo possibile oggetto di studio scientifico, escludendo ogni ricorso a eventi interni inosservabili.
Il behaviorismo, che ha dominato, soprattutto negli Stati Uniti, la scena della psicologia sperimentale per quasi tutta la metà del secolo scorso, ha cercato disperatamente di comprendere il comportamento umano e quello animale senza utilizzare in nessuna occasione il concetto di mente. Ma proponendosi di sviluppare i principi del positivismo e della ricerca scientifica sulla base degli studi del condizionamento degli animali che il fisiologo Pavlov effettuò nel suo laboratorio. Le ricerche sugli animali vengono poi estese dallo psicologo Watson all’uomo e la ricerca di obiettività lo portò a trascurare quello che avviene a livello della coscienza. Il comportamento animale- afferma lo psicologo Edward Thorndike- è inconscio, automatico e riflesso. Gli animali non pensano, non riflettono e non ragionano. Essi rispondono (R) semplicemente allo stimolo (S) che ha dato luogo a una determinata azione. La teoria del behaviorismo, soprattutto con Skinner, applicherà gli stessi concetti anche agli esseri umani.
Secondo i comportamentisti, la mente è una “scatola nera” nella quale non vale “la pena mettere il naso” (Boncinelli). La conclusione è che il comportamento è dovuto al condizionamento.
Ci sono invece autori che ritengono che le basi teoriche del comportamentismo siano sbagliate e che non sia possibile comprendere i meccanismi del cervello e della mente senza mettere il naso dentro la scatola nera. Secondo questi autori, la mente esiste, ha suoi contenuti e proprietà, e il primo scopo della ricerca neuro scientifica è quello di sviscerare il complesso di tali elementi.
E’ una linea di pensiero che come reazione al comportamentismo, che domina fino agli inizi degli anni ’60, comincia a imporsi intorno agli anni ’70, dando origine a quella scuola di pensiero che è stata chiamata “cognitivismo”, e che apre un nuovo capitolo nello studio sul cervello e la mente, quello delle neuroscienze cognitive.
Per “Scienze cognitive” intendiamo quegli studi sulle funzioni del cervello e della mente che non si esauriscono nello studio fisiologico del cervello, ma anzi propugnano la necessità di considerare la mente come entità da esaminare in maniera autonoma.
In pratica, il cognitivismo sostiene a) l’idea che la scienza del cervello non può ignorare l’architettura interna dei processi cognitivi; b) l’identità tra eventi mentali ed eventi cerebrali. La psicologia quindi è riducibile alla neurobiologia.
Un notevole contributo al cambiamento di prospettive in materia è fornito dallo studio sulle scimmie condotto da Jane Goodall nel 1986 sulle rive del lago Tanganica. Dalle sue osservazioni, le scimmie appaiono non più come “automi goffi e primitivi incapaci di elevarsi allo status di persone, ma creatura con una vita sociale complessa e sofisticata come la nostra”.
Ricerche successive dimostrano che l’uomo non è l’unico essere capace di fabbricare e usare strumenti, di avere una cultura e di possedere un linguaggio. Gli scimpanzé sono in grado di preparare strumenti per estrarre, ad esempio, le termiti dai loro nidi o strizzare le foglie per ottenere l’acqua da bere. Sono anche capaci di insegnare ai loro piccoli a rompere le noci, percuotendole con martelli di legno su una pietra.
Per la loro sopravvivenza- scrive de Vaal- gli scimpanzé “dipendono interamente dalla cultura. In Africa, infatti, sono note più di cinquanta forme di tradizioni culturali di apprendimento. Essi hanno un vocabolario con cui riferirsi a predatori e uccelli diversi. Le scimmie antropomorfe e i pappagalli riescono ad apprendere “lessici simbolici molto ampi” (Ridley).
Verso la fine degli anni Settanta, Martin Seligman sviluppa il fondamentale concetto di “predisposizione innata all’apprendimento” come ad esempio aver paura dei serpenti Che è un comportamento sia umano che un comportamento osservato negli animali. E’ il contrario dell’imprinting. In quest’ultimo, il piccolo di oca si fissa sul primo oggetto in movimento che incontra, non importa se si tratti della madre o di un individuo con la barba.
Si ritiene poi che gli scimpanzé abbiano una “teoria della mente”, cioè che siano capaci di immaginare ciò che pensa un suo simile (Call). Dall’esame della Goodall e in esperimenti condotti di recente è emerso che non siamo gli unici al mondo a possedere coscienza e capacità di agire, poiché le scimmie e perfino i babbuini “hanno eseguito compiti di discriminazione al computer con una competenza tale da dimostrare capacità di ragionamento astratto (Malik). Circa la complessa, difficile e delicata questione della coscienza, ricordiamo che già Darwin aveva affermato la tesi dell’esistenza anche in altri animali di una forma di consapevolezza, sebbene in forma primitiva.
Per alcuni scienziati, la differenza che passa tra la mente dell’uomo e la mente degli animali più elevati è “differenza solo di grado e non di qualità” (Ridley). E’ quantitativa e non qualitativa. “Intuizioni, emozioni e facoltà come l’amore, la memoria, l’attenzione, la curiosità, l’imitazione, la ragione, di cui l’uomo va fiero, si possono trovare, per Darwin, in una condizione incipiente o talora anche ben sviluppata negli animali”. Ovunque si guardi- aggiunge Ridley- si riscontrano “somiglianze” tra il nostro comportamento e quello degli animali”.
Ed allora, che cosa noi uomini siamo? Simili o diversi dalle antropomorfe? Entrambe le cose. A prevalere probabilmente non sono né la somiglianza né la differenza. Queste “coesistono”. Dobbiamo dunque abbandonare “la strana segregazione degli esseri umani dai loro simili” (Midgley).
In realtà, la soluzione alla discussione sulla unicità e sulla natura eccezionale dell’uomo, in cui le posizioni oscillano tra la somiglianza sostenuta da Darwin e la differenza affermata da Cartesio, è destinata a prolungarsi. In un esperimento effettuato dall’équipe di Allan Wilson nel 1975 a Berkley per trovare le differenze genetiche fra esseri umani e scimmie risultò che era impossibile trovare differenze, perché il DNA degli esseri umani e quello degli scimpanzé era sorprendentemente simile: quasi il 99,9 per cento del DNA umano era identico a quello dello scimpanzé. La somiglianza era “più eccitante”- commenta Ridley- della differenza”. Una somiglianza stupefacente. Ancora più fantastico e sconvolgente fu la scoperta di alcuni ricercatori di Yale nel 1984 che il DNA dello scimpanzé era “più simile a quello umano che a quello del gorilla” (Sibley e Ahlquitt). Gli scienziati calcolano che i geni umani siano circa 25 mila. Poiché l’1,5 per cento di 25 mila è 375, ne deriva che l’uomo possiede 375 geni differenti unicamente umani. Gli altri 24625 geni sarebbero identici negli esseri umani e negli scimpanzé.
I cani in particolare presentano diversi tipi di comportamento. Il nome stesso delle razze- cani da punta, cani da ferma, da pastore, da combattimento (bulldog)- indica che ciascuna di esse presenta alcuni istinti (innati) per i quali è stata selezionata. L’ereditarietà del comportamento nei cani è un concetto ormai convalidato dagli scienziati. Un cane da caccia non può essere addestrato a difendere il bestiame, così come non si può insegnare a un cane da guardia a fare il pastore.
I cani sono cuccioli di lupo, che ne hanno conservato alcuni elementi comportamentali (Ginsburg e Scott). E’ stato il processo della domesticazione che ha portato il lupo a dare origine al cane. Il lupo tende l’agguato alla preda, la insegue, la ghermisce, la uccide e la fa a pezzi, che poi porta alla tana. Così, i collie e i cani da punta sono “bloccati” allo stadio dell’agguato; i cani da riporto allo stadio del trasporto della preda e i pitbull in quello del morso letale. Ciascuno di essi è un insieme di diversi fattori riscontrabili nei cuccioli di lupo.
Il fatto che le varie razze presentino “comportamenti specifici- scrive Budiansky- è inconfutabile”. Questo dimostra che i loro comportamenti sono codificati nei geni. Esperimenti condotti in laboratorio, infatti, hanno portato alla scoperta del legame tra geni e comportamento (Ginsburg). Ricerche con i cani hanno mostrato che la simulazione del combattimento è controllata da due geni che regolano la soglia dell’aggressività (Konner).
I geni tuttavia vanno trattati alla stregua delle altre cause. Gli effetti dei geni e dell’ambiente non sono separabili. Il cervello e la mente appaiono “emergere” in modo imprevedibile dal processo di sviluppo (Schffner). E lo sviluppo sembra “adeguarsi” all’ambiente.
Oggi, la ricerca sul cervello umano e sul cervello animale è al centro dell’interesse di numerosi neuroscienziati, che in ogni parte del mondo cercano di rispondere ad una delle maggiori sfide dell’umanità, fornendo come abbiamo mostrato nel corso del presente lavoro i primi stupefacenti risultati.
Gli scienziati cercano proprio negli animali le risposte ai misteri del cervello umano. Studiando gli animali possiamo capire come funzionano i meccanismi neurali e come ha avuto inizio l’attività riproduttiva e come agisce.
Gli esseri umani sono animali. Platone definiva l’uomo un animale bipede privo di piume. Da un punto di vista genetico sono “pressoché identici agli scimpanzé, ai topi e ai vermi” (Steve Jones). Gli studi genetici sul piccolo insetto “Drosophila” e gli studi neurobiologici condotti sulla lumaca di mare “Aplysia” dal premio Nobel per la medicina, Eric R. Kandel, hanno gettato nuova luce sulla comprensione del cervello umano, sulle malattie ereditarie, sull’apprendimento e la memoria.
Il comportamento animale sembra riecheggiare il nostro. L’uomo però è l’unico animale ad arrossire e a vergognarsi. Ed è pure- rileva Mark Twain- l’unico “che ne ha bisogno”.
Lo scopo del nostro lavoro è proprio quello di contribuire alla conoscenza del cervello e della mente, la quale finora ha prodotto incredibili progressi, che sono destinati a “rivoluzionare” non solo la medicina, ma anche il nostro stesso modo di vivere e di pensare.
Il cervello e il sapere scientifico tuttavia sono una lama a doppio taglio (cfr. l’epigramma nella prima pagina). Possono essere usati per propositi nobili o per propositi meschini, personali o ignobili. Di qui, l’esigenza avvertita da noi e da altri autori, fra i quali Kandel, di un nuovo umanesimo, il cui fine è quello di realizzare il benessere mentale e fisico della persona, che è il motore che traina l’evoluzione della civiltà. Una civiltà più umana e umanizzante. Che possa affermare il primato dell’empatia, della solidarietà e del bene rispetto all’egoismo e alla malvagità.
Un prezioso contributo alla costruzione di questo processo può essere offerto dalla capacità dell’essere umano di riuscire a conoscere, apprendere e tesaurizzare lo straordinario dono di affezione, dedizione e tenerezza del nostro cucciolo. Sentimenti che purtroppo non albergano in tutti gli uomini. In molti prevalgono l’odio e il rancore, l’insensibilità e un’arrogante ignoranza.
Di recente, uno scrittore si domandava: “Solo l’arte ci salverà?”. Noi in questa sede ci chiediamo: “Solo l’affetto, il bene e la devozione che riusciremmo a trarre dal nostro cucciolo ci salveranno?”. Chi può dubitare della dimensione salvifica della nascita di questo nuovo umanesimo? Da dove partire? Dai primi anni di vita del bambino. In famiglia e a scuola. Sono momenti fondamentali in quanto determinano lo sviluppo normale o patologico dell’essere umano. Chissà che una tale evoluzione non riuscirebbe a confutare l’idea espressa in un libro da Gilbert e Sullivan: “L’uomo è l’unico errore di Madre Natura”.
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