La Suprema Corte chiarisce che fare spam non è reato, a meno che non si verifichi un danno, patrimoniale o non patrimoniale per il singolo destinatario
mano rossa che segna divieto a spam nelle mail
di Annamaria Villafrate – La Cassazione nella sentenza n. 41604/2019 (sotto allegata), nell’accoglier il ricorso dell’imputato, condannato per il reato di cui all’art. 167 in relazione all’art 130 del d.lgs. n. 196/2003, per illecito trattamento dei dati, chiarisce che affinché si possa configurare tale reato è necessaria in realtà la produzione di un nocumento, patrimoniale o non patrimoniale, che non può identificarsi, come nel caso di specie, nel semplice disagio di dover cancellare delle e-mail per l’invio delle quali non era stato richiesto ai membri di un’associazione, il consenso preventivo.
La vicenda processuale
Il ricorso dell’imputato
Fare spam non è reato se non c’è nocumento

La vicenda processuale

La Corte d’appello conferma la sentenza del giudice di primo grado con cui ha condannato l’imputato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi 6 di reclusione, perché ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 167 in relazione all’art. 130 del dlgs. n. 196 del 2003, per aver trattato illecitamente alcuni dati personali degli iscritti a una Associazione, inviando reiteratamente agli stessi numerose email provenienti dal suo indirizzo, con cui reclamizzava propri corsi di aggiornamento, per procurarsi un profitto, consistente nell’ottenere la partecipazione a eventi formativi convegni patrocinati o organizzati dallo stesso e procurando, di contro, agli associati un danno, in quanto costretti a controllare le numerose email inviate loro senza un consenso espresso in tal senso. L’imputato veniva quindi condannato a riparare i danni arrecati ai membri dell’associazione, costituitasi parte civile e da risarcire in separata sede.

Il ricorso dell’imputato

Avverso la sentenza ricorre l’imputato lamentando:

  • l’asserita insussistenza di un danno in capo agli associati destinatari delle email, in quanto il dato numerico delle email inviate non può essere rapportato a ogni iscritto all’Associazione, ma alla stessa nel suo complesso, considerato anche che nessuno si è costituito parte civile singolarmente;
  • il travisamento del dato processuale rappresentato dai documenti prodotti dalla parte civile, visto che da questi si poteva desumere che l’imputato aveva inviato 14 comunicazioni diverse a 93 indirizzi mail di alcuni associati, ragion per cui non è vero che erano state inviate “centinaia di comunicazioni”. Ogni associato aveva ricevuto al massimo 2 email e uno solo 10, per cui è da escludere che ogni associato abbia subito un danno a causa di dette comunicazioni;
  • l’illogicità della motivazione in relazione al diniego delle attenuanti generiche;
  • il mancato riconoscimento dell’ipotesi di cui all’art. 131 bis cod. pen., anche se la corte ha ammesso che la condotta e il danno prodotti dall’imputato “erano di rilevanza esigua e che il comportamento contestato era stato occasionale.”

Fare spam non è reato se non c’è nocumento

La Cassazione, con sentenza n. 41604/2019 annulla la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Nel percorso motivazionale gli Ermellini descrivono sinteticamente le motivazioni che hanno condotto al peggioramento dei rapporti tra l’imputato e l’Associazione proprio nel momento in cui il primo ha iniziato ad inviare messaggi non graditi ai membri dell’associazione in cui sponsorizzava corsi e convegni destinati agli stessi.
Dopo questa premessa doverosa la corte precisa tuttavia che tale condotta non può essere inquadrata nella fattispecie di cui all’art. 167 del dlgs. n. 196/2003, norma che, al momento dei fatti era così formulata: “1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’articolo 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi. 2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20, 21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni”.
Come precisa poi la Corte la norma è stata di recente modificata dal dlgs. n. 101 del 10 agosto 2018 (art. 15 comma 1 lett. b), anche se è rimasto invariato l’elemento soggettivo del reato ovvero il fine dell’agente di trarre per sé o per altri un profitto o di recare ad altri un danno mediante l’illecito trattamento, che connota il reato come un delitto a dolo specifico. Immutata anche la necessità del verificarsi di un “nocumento”, anche se nell’attuale versione normativa la determinazione del danno costituisce un elemento costitutivo della fattispecie penale, contrariamente a quanto prevedeva la precedente formulazione della norma.
Detto questo, nel caso di specie non si è verificato nessun nocumento ai danni dei membri dell’associazione. Vero che nel caso di specie c’è stato un illecito trattamento dei dati, visto che per legge è necessario ottenere il preventivo consenso del destinatario quando si procede alla divulgazione di materiale pubblicitario, ma è altrettanto vero che il numero di messaggi ricevuti dai membri dell’associazione è così contenuto da non potersi parlare d’invasione dello spazio informatico degli associati.
“Ora, non c’è dubbio che, nell’attuale contesto socio-economico, è molto diffusa la pratica del cd. spamming, ovvero dell’invio in varie forme di una pluralità di messaggi pubblicitari a una vasta platea di utenti senza il consenso di costoro; tuttavia, affinché tale condotta assuma rilievo penale, occorre che si verifichi per ciascun destinatario un effettivo “nocumento”, che non può certo esaurirsi nel semplice fastidio di dover cancellare di volta in volta le mail indesiderate, ma deve tradursi in un pregiudizio concreto, anche non patrimoniale, ma comunque suscettibile di essere giuridicamente apprezzato, richiedendosi in tal senso un’adeguata verifica fattuale volta ad accertare, ad esempio, se l’utente abbia segnalato al mittente di non voler ricevere un certo tipo di messaggi e se, nonostante tale iniziativa, l’agente abbia perseverato in maniera non occasionale a inviare messaggi indesiderati, creando così un reale disagio al destinatario. (…) In quest’ottica, deve quindi escludersi che la ricezione di tre o quattro mails nell’arco di circa cinque mesi, senza alcuna diffida preventiva rivolta al mittente, possa integrare un “nocumento” idoneo a integrare la fattispecie contestata, non essendo sufficiente in tal senso qualche generica lamentela rivolta da taluno degli associati non direttamente all’imputato, ma solo alla propria associazione.”
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FONTE